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Salad Days Magazine | July 27, 2024

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Loscil ‘Monument Builders’

Loscil ‘Monument Builders’
Salad Days

Review Overview

9
9
9

Rating

LOSCIL
‘Monument Builders’
(Kranky)
9/10


Il lavoro di Scott Morgan, aka Loscil, può essere considerato unico nel suo genere: il produttore di Vancouver ha infatti utilizzato il suono e le sue stratificazioni per indagare su temi importanti nel corso di tutta la sua carriera, facendo in modo di poter essere definito, in qualche modo, una sorta di “biologo musicale”. Ha dedicato un album alle particelle subatomiche con ‘Triple Point’ (2001), ha esplorato la vita dell’oceano con ‘Submers’ (2002), la letteratura degli anni’60 con ‘City Hospital’ (2012) e il paesaggio di Vancouver con la trilogia composta da ‘First Narrows’ (2004), ‘Sketches From New Brighton’ (2012) e ‘Sea Island’ (2014). Se i precedenti lavori si caratterizzano per una sorta di “liquidità” che rispecchia l’intento dell’autore di creare un suono libero e in costante movimento, come quello dell’acqua, con ‘Monument Builders’ il focus sembra essere radicalmente cambiato: al centro del lavoro vi è infatti l’uomo e i dilemmi esistenziali che accompagnano ognuno di noi, dilemmi legati al contesto urbano e post-industriale e che trovano la loro concretizzazione in musica anche attraverso al procedimento di registrazione adottato da Morgan. L’intero album, infatti, è stato composto registrando sample tramite un vecchio registratore nella sua casa di Vancouver. I campionamenti traballanti di bollitori, di vecchi oggetti, di spostamenti d’aria contribuiscono a delineare un suono distorto, caratterizzato da texture strarificate che servono sia come percussioni sia per definire una dimensione eterea e astratta del suono stesso. Il disco, come ammesso dallo stesso musicista, è stato ispirato dal ritrovamento di una vecchia VHS del film sperimentale ‘Koyaanisqatsi’ di Godfrey Reggio. Ma il deterioramento della videocassetta ha fatto sì che il film risultasse rovinato, in particolare il punto con la colonna sonora di Philip Glass risultava graffiato, compromesso, come se il decadimento aggiungesse bellezza al componimento. Non solo: l’album prende anche ispirazione dalle fotografie di Edward Burtynsky, una serie di scatti che mostrano paesaggi mozzafiato creati da miniere, discariche e saline. ‘Monument Builders’ è quindi un album altamente visivo, un mosaico di immagini che ritraggono la costruzione, la devastazione e la trasformazione non solo del paesaggio, ma anche dell’animo umano. I primi quattro brani sono caratterizzati da una forte tensione compositiva: ‘Drained Lake’ sembra volerci proiettare in uno scenario privo di speranza, così come ben rappresentato dal fatto che l’autore sceglie di privarci proprio dell’ elemento a lui più caro, l’acqua. L’inesorabile e arpeggiata linea di basso in ‘Red Tide’ ci regala uno dei momenti meno ottimisti di questo lavoro. In realtà, in tutto il disco incontriamo il suono lontano di ottoni: corni e trombe solitari, utilizzanti come lamenti amareggiati e catastrofici. L’oscurità avvolge la title-track, costruita attorno ad un’unica nota tremante che per quasi 5 minuti ci relega in una dimensione angosciante e malinconica, prima di sprigionarsi in uno dei componimenti più riusciti e particolari del disco, il brano ‘Straw Dogs’, minaccioso e cupo, chiamato in questo modo in onore dell’omonimo libro del filosofo anti-umanista John Gray , che parla dei pericoli di collocare l’umanità al centro dell’universo. L’;aurea sinistra che si cela dietro le composizioni sembrerebbe indicare che Morgan sottoscriva le idee di Gray circa la nostra propensione per la distruzione geologica e sociale, così come pare evidente anche nel brano ‘Anthropocene’, il nome per la nostra epoca geologica attuale. Il pezzo è segnato da una pulsante linea di basso, una sorta di palpitazione cardiaca che ci porta a riflettere sui pericoli che derivano dall’egoismo che contraddistingue questo periodo storico, nel quale la natura è strumentalizzate per soddisfare i bisogni dell’uomo, per costruire città sempre più grandi, per produrre e consumare sempre di più. La chiusura è lasciata a ‘Weeds’, un brano opprimente che lentamente svanisce nella notte, costruito sulla stratificazione di note mormoranti di un synth e da voci computerizzate che sembrano rabbrividire all’interno di una massa di ghiaccio, probabilmente vista come l’inesorabile fine alla quale l’umanità andrà incontro. Un disco imperdibile.
(Serena Mazzini)

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